Chi sono

Roberto Tozzini

Ho avuto una strana genesi. A mia madre, sulla soglia dei quarant’anni, fu diagnosticata l’impossibilità di mettere al mondo un secondo figlio (mia sorella era nata quindici anni prima) e allora lei e mio padre non presero più neppure quelle poche precauzioni che esistevano ad inizio degli anni cinquanta. Dopo pochi mesi mia madre si accorse di essere incinta e, pur accettandomi con amore, la situazione destabilizzò tutta la famiglia. Nacqui a fine giornata del 29 Febbraio del 1952 ma, per motivi di praticità, l’impiegato comunale trascrisse la nascita al primo Marzo, che da sempre reputo essere il mio compleanno. Ci sarebbe da dire che comunque non avrei dovuto nascere vivo in quanto non ero riuscito a girarmi di testa in tempo e anche le manovre dell’ostetrica erano risultate vane. Il medico aveva avvertito all’ultimo momento mio padre del pericolo, per me e mia madre, di un parto in tale situazione e aveva chiesto, in caso disperato, quale delle due vite avrebbe dovuto privilegiare. Mio padre, dopo un momento di angoscia che ne bloccava qualsiasi pensiero, pressato dall’insistenza del medico che ripeteva la stessa domanda con più enfasi, rispose di salvare sua moglie. E invece eccomi qua! Nacqui uscendo per i piedi, rischiai di morire strozzato e soffocato ma ce la feci. Evidentemente la forza della vita aveva prevalso contro la logica della morte!

Ho avuto un’infanzia meravigliosa, anche se spesso ero senza mia madre, affetta fino da giovane da quella malattia che chiamavano tisi ed oggi è conosciuta come tubercolosi. Stavo quindi spesso con mia nonna Emma, la madre di mio padre. Ho dei bellissimi ricordi di lei, alla pari di quelli che ho dei miei genitori che mi hanno amato e che ho fortemente amato fino alla loro scomparsa a sessanta e sessantacinque anni.

Da giovane adulto sono entrato a far parte dell’azienda creata da mio padre e altri soci. Ho diretto per quasi venti anni il settore produttivo portando grandi innovazioni tecniche e aumentando di gran lunga la potenzialità produttiva aziendale. Poi, non trovandomi sempre in linea con il volere degli altri soci, preferii dare le dimissioni ed aprire un negozio di musica. Ma non mi bastava quel contatto formale con la gente, sentivo che qualcosa non andava. Mollai tutto per lavorare in una grande pasticceria, credendo forse di trovare nella turbinosa confusione di quel lavoro un senso a quello che stavo facendo, ma dopo tre anni realizzai che dovevo di nuovo cambiare. Gli ultimi tredici anni lavorativi li ho spesi all’interno di una struttura di accoglienza, dove venivano ospitate, quasi totalmente, famiglie di immigrati. Ho toccato con mano le difficoltà di trattare con culture, religioni, abitudini così lontane fra loro e così dissimili dalle nostre. Spesso, sentendo i discorsi dei nostri politici, mi rendo conto di quanto venga parlato a vanvera su questi argomenti, senza avere alcuna esperienza fatta sul campo. Il sentir dire che, in fondo, siamo tutti uguali e che tutta questa gente cerca l’integrazione, mi rende isterico. Semplicemente spingono il popolo a delle convinzioni che non hanno il minimo fondamento. Così come le forze contrarie che dipingono ogni immigrato come delinquente e profittatore. Ma potrei scriverci un libro su questa esperienza e chissà che non lo faccia, un giorno.

Ho sempre amato scrivere. Avevo buoni voti in italiano. Scrivevo dei bei pensierini prima, dei buoni temi dopo. Mi dilettavo a comporre poesie, come viene fatto un po’ da tutti e poi, verso i quindici anni, iniziai a scrivere canzoni. La musica non la conoscevo e allora strimpellavo sulla chitarra quei pochi accordi conosciuti e ci intessevo dei testi che venivano giudicati interessanti dagli amici. Il vizio non l’ho perso neppure oggi e, qualche volta, scrivo una canzone, più per me che per gli altri. E poi il gusto di narrare mi ha portato a scrivere libri. Devo dire che non è stato facile passare dall’ermetismo dei testi per canzoni a uno stile ben più dettagliato, complesso e dilatato, tipico di un romanzo. Quando sei abituato a comprimere tutto un concetto in pochi stringatissimi  versi, non ti rendi conto di quanto possa raccontare oltre quella essenzialità. L’inizio del mio primo romanzo fu un disastro. Dopo venti pagine non sapevo più cosa dire. Tutto mi sembrava esageratamente ampliato. Ho impiegato dieci anni per terminarlo, fra cancellazioni e riscritture, con momenti in cui ero convinto di abbandonare il progetto e attimi di euforia creativa. Poi, alla fine del 2018, è andato in porto. Ora scrivo con maggiore enfasi, con il gusto di raccontare ad altri ciò che i miei personaggi dettano alla mia mente e per i quali io opero da umile scrivano, forse da cantastorie. Raccolgo quanto loro mi suggeriscono e ne compongo una storia raccontata in modo corretto, senza gli errori e le sovrapposizioni che in certi momenti, beffardamente, mi vengono consigliati. Senza le soste di settimane in cui sembrano essersi volatilizzati non solo i pensieri, ma i personaggi stessi. In quei periodi temo che non ritornino a parlarmi, a narrarmi le loro storie. Non saprò mai se sono vere o false. Non più di ciò che mi viene confidato dagli esseri umani. So, però per certo, una cosa. Non cercano mai di convincermi a creder loro ma spesso, nel raccontare, dimostrano di non dubitare di quelle storie e di averle in qualche modo vissute o sentite raccontare da altri. Non so se tutto è frutto della fantasia di scrittore o se quei personaggi aleggiano misteriosamente nella mia mente provenienti da altre realtà. Non lo saprò mai, credo. Ma tutto questo ha così poca importanza.